Le 3 procedure di conciliazione dopo il Jobs Act
Con l’introduzione del decreto legislativo n. 23/2015 è stata aggiunta una terza tipologia di conciliazione in caso di contenzioso in materia di lavoro, la c.d. Conciliazione facoltativa a “tutele crescenti”.
Di seguito andremo ad analizzare sia quest’ultima fattispecie di conciliazione sia le altre tipologie già previste dalla normativa in quanto, molto spesso, le aziende non sanno quale applicare in relazione al motivo della vertenza in atto e ne risultano dunque “disorientate”.
La scelta sulla procedura più idonea non riguarda sempre esclusivamente una volontà tra le parti, ma, in alcuni casi, anche un obbligo poiché la mancata attuazione di una corretta procedura potrebbe avere effetti negativi sull’efficacia del provvedimento del datore di lavoro, come nel caso di un’azienda con più di 15 dipendenti che procede al licenziamento per giustificato motivo oggettivo di un lavoratore.
Vediamo dunque nel dettaglio i vari campi di applicazione delle tre tipologie di conciliazione.
Conciliazione facoltativa
Nel corso degli anni la procedura conciliativa ha subito varie modifiche passando dall’obbligarietà (D. L.vo n. 80/1998) alla facoltatività (D. L.vo n. 183/2010).
Questa procedura può essere avviata per risolvere tutte quelle controversie individuali di lavoro, aventi cioè ad oggetto il singolo lavoratore. Qualora una delle parti (quasi sempre il lavoratore) abbia a pretendere l’applicazione di norme di legge o di contratto può adire a questo istituto con l’obiettivo di risolvere velocemente e in maniera definitiva la vertenza.
Il tentativo di conciliazione si basa sulla volontarietà delle parti che hanno il potere, e non il dovere, di rivolgersi a questa procedura conciliativa.
Potrà essere effettuata una conciliazione in questi termini per tutti i rapporti di lavoro subordinato privato, rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale e tutti i rapporti di collaborazione che prestino opera continuativa e coordinata anche se non propriamente a carattere subordinato.
Conciliazione preventiva in caso di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo
La legge 92/2012 all’art. 1 commi 40/41 ha modificato l’art. 7 della legge 604/1966 introducendo un previo tentativo di conciliazione in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Le aziende che hanno i requisiti dimensionali previsti dall’art. 18, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, licenziamento per motivi economici, ecc. saranno obbligati ad avviare un tentativo di conciliazione presso la Commissione provinciale di conciliazione dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro.
Questa procedura costituirà la giusta condizione per intimare il licenziamento in quanto la mancata ottemperanza alla suddetta procedura renderà illegittimo il licenziamento.
Come precedentemente indicato, la procedura dovrà essere attivata presso l’Ispettorato Territoriale del lavoro competente e potrà avere i seguenti esiti:
Un accordo tra le parti;
Un mancato accordo tra le parti;
Una mancata comparizione di una o entrambe le parti.
Nel caso ci fosse l’accordo si andrà a verificare la condivisione del recesso del rapporto di lavoro con la possibilità anche di una risoluzione consensuale, mentre negli altri due casi il datore di lavoro valuterà la concretizzazione del licenziamento comunicandolo al Centro per l’Impiego. Se invece il lavoratore riterrà illegittimo il licenziamento valuterà la possibilità di proseguire il contenzioso attraverso una vertenza avvalendosi di un giudice del lavoro.
Conciliazione facoltativa a tutele crescenti
La terza procedura conciliativa, la più “giovane” (nata nel marzo 2015), a differenza delle precedenti potrà essere attivata solamente per i rapporti di lavoro a tempo indeterminato stipulati in forza delle tutele crescenti stabilite con il decreto legislativo 23/2015, e cioè quei rapporti di lavoro (a tempo indeterminato) iniziati dal 7 marzo 2015 o quei rapporti di lavoro trasformati da tempo determinato a tempo indeterminato o da apprendisti a lavoratori qualificati dal 7 marzo 2015.
Se il datore di lavoro ha proceduto al licenziamento (giustificato motivo oggettivo/soggettivo, giusta causa) di un lavoratore assunto a tutele crescenti, potrà offrire al lavoratore, allo scopo di evitare qualsiasi controversia, un importo pari a 1 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 mensilità e fino ad un massimo di 18 mensilità; questi parametri verranno dimezzati per le aziende con meno di 16 dipendenti.
L’importo riconosciuto al lavoratore non costituirà reddito imponibile ai fini previdenziali e fiscali.
L’accettazione dell’assegno da parte del lavoratore comporterà:
L’estinzione del rapporto di lavoro alla data di licenziamento;
La rinuncia all’impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore anche qualora l’abbia già avviata;
L’accesso da parte del lavoratore all’Aspi.
L’importo dovrà essere erogato tramite un assegno circolare.
Il datore di lavoro, successivamente alla conclusione della conciliazione, dovrà comunicare sul sito clic lavoro.gov.it l’avvenuta definizione qualunque sia l’esito entro 65 giorni dalla data di cessazione, pena una sanzione amministrativa da 100€ a 500€.
In fase di conciliazione le parti potranno inoltre prevedere la sistemazione di ulteriori questioni riguardanti il rapporto di lavoro intercorso, ma in questo caso le somme eccedenti i limiti sopra indicati saranno imponibili fiscalmente.