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Evoluzione del contratto a tempo determinato

Il contratto di lavoro a tempo determinato (o a termine) è un contratto di lavoro subordinato al quale è apposto un termine finale: la scadenza del predetto termine produce l’estinzione del rapporto in maniera automatica. Tale principio è confermato sia dalla dottrina maggioritaria che dal Giudice di legittimità (cfr Cass. Civ. Sez. Lavoro 2 aprile 2012, n. 5241). Infatti il termine apposto viene definito un elemento accidentale del contratto di lavoro subordinato, la cui forma comune invece è a tempo indeterminato, vale a dire un legame che è possibile sciogliere solo in presenza di determinate fattispecie previste dalla legge.



Prima evoluzione normativa.


Il primo riferimento normativo al contratto a termine lo troviamo nell’ormai abrogato articolo 2097 del codice civile emanato nel 1942, che al primo comma statuisce che il contratto di lavoro deve essere inteso a tempo indeterminato. Tuttavia è possibile apporre un termine al contratto qualora lo stesso risulti da atto scritto, oppure in funzione della natura “speciale” del rapporto. Nell’ipotesi in cui venisse accertata la finalità elusiva del termine, il rapporto si sarebbe trasformato a tempo indeterminato.


Purtuttavia, questa prima codifica normativa non evitò un abuso nell’utilizzo del termine, e pertanto il legislatore intervenne con la legge n. 230/1962 che abrogò l’articolo 2097. L’intento del legislatore mirava ad aumentare le tutele del lavoratore, e a tal fine la novella del 1962 consente al datore di lavoro di utilizzare questa tipologia contrattuale solo ed esclusivamente nei casi in cui la specialità della prestazione richiede una durata limitata nel tempo, ossia nei casi di lavori stagionali, artistici, di sostituzione dei lavoratori, ecc. Viene anche stabilito che la proroga del termine potesse essere essere effettuata una sola volta, e per una durata non superiore alla durata inizialmente prevista.


La norma introdusse, dunque, un perimetro molto preciso all’interno del quale era possibile stipulare contratti a tempo determinato. Non rispettando questo “perimetro” il rapporto doveva considerarsi a tempo indeterminato.


Questo provvedimento si inserisce in un quadro legislativo che mira a tutelare la stabilità dei rapporti di lavoro. Infatti se da un lato viene normata la disciplina dell’apprendistato (legge n. 25/1955) e quindi incentivata l’introduzione dei giovani nel mondo del lavoro, dall’altro lato vengono elaborate delle disposizioni che tutelano il lavoratore in caso di licenziamento ritenuto illegittimo (leggi n. 604/1966 e 300/1970).


Questo corso normativo, che ha potuto vantare degli indubbi successi nel corso degli anni ’60, ’70 e ’80, ha subito delle profonde modifiche nel corso dei decenni successivi.



Dagli anni ’90 al Jobs Act.


Già sul finire degli anni ’70 il legislatore introdusse delle deroghe alla rigidità della legge n. 230/1962 anche in conformità ai primi sviluppi evolutivi che l’economia italiana stava cominciando a subire. Infatti vennero emanati alcuni provvedimenti, tra cui il D.L. n. 876/1977 (convertito in legge n. 18/1977) e la legge n. 79/1983, che estesero la possibilità di effettuare delle assunzioni a tempo determinato nei settori del commercio e turismo, e nei settori caratterizzati da aumenti ricorrenti dell’attività lavorativa.


Dunque, come sopra accennato, l’attenuazione della rigidità della normativa in materia - abbinata all’introduzione di forme contrattuali atipiche - operata compiutamente a partire dagli anni ’80 e proseguita fino agli anni più recenti, è stata giustificata dal legislatore e dagli attori istituzionali come una risposta alla crescente evoluzione tecnologica dell’economia italiana, trainata in questo percorso dalla repentina globalizzazione delle economie mondiali.


Va osservato che il mercato del lavoro italiano in quegli anni cominciò a caratterizzarsi per una forte dualità tra quanti si trovavano occupati con contratti a tempo indeterminato, e chi risultava occupato con contratto a termine.


Anche in ragione di quanto appena detto venne emanata la direttiva 99/70/CE che introdusse una prima normativa a livello comunitario, che fu recepita dal nostro ordinamento con il D.Lgs. n. 368/2001. La normativa appena richiamata ha stabilito che le normative nazionali degli Stati membri debbano introdurre degli elementi da rispettare per la stipula del contratto a tempo determinato, tra cui: I) il termine deve essere legato a degli eventi oggettivi (come la data, il completamento di un compito, ecc.); II) per evitare l’abuso del contratto a termine viene stabilita la necessità di introdurre un vincolo di giustificazione all’apposizione di un termine; III) si obbligano gli Stati membri a stabilire il numero di rinnovi massimi, la durata massima del rapporto, ecc.


Come detto, il nostro ordinamento recepisce la direttiva CE con il D.Lgs. n. 368/2001 (che abroga la legge n. 230/1962) che si caratterizza per l’ampliamento nella possibilità di stipulare contratti a termine. Infatti in base a questa norma è sempre possibile assumere personale a tempo determinato, qualora si manifestino ragioni di carattere produttivo, organizzativo o tecnico purché non venga superato il limite dei 36 mesi di durata.


Il ricorso a contratti di lavoro a termine ha avuto un incremento negli anni della crisi economico-finanziaria registratasi nel corso dell’ultimo decennio. Chiaramente in una fase economica di recessione, la disciplina dell’istituto ha subito un’ulteriore liberalizzazione, al fine di rendere più flessibile il mercato del lavoro. La legge n. 92/2012, sotto la spinta delle istituzioni europee, ha modificato la disciplina del D.Lgs. n. 368/2001 introducendo il principio della c.d. a-causalità, che consiste nella possibilità per il datore di lavoro di non indicare alcuna causale per l’apposizione del termine al primo contratto stipulato, con una durata massima di 12 mesi. Pertanto l’indicazione della causale, per la prima volta dal 1962, cessa di essere un elemento necessario del contratto a termine, e interviene solo in caso di rinnovo del contratto.


Con il D.L. n. 34/2014 (convertito nella legge n. 78/2014, prima parte del c.d. Jobs act) il legislatore liberalizza completamente l’istituto del contratto a termine, introducendo la possibilità di non indicare alcuna causale per tutta la durata del rapporto, fissata in massimo 36 mesi (e 5 proroghe totali).



Le novità del Decreto Dignità.


Con il provvedimento denominato Decreto Dignità contenuto nel D.L. n. 87/2018 e convertito in legge n. 96/2018 si riduce la durata massima da 36 a 24 mesi del contratto a termine, con la previsione di massimo 4 proroghe. Una volta trascorsi i primi 12 mesi, o al primo rinnovo anche se la durata complessiva è inferiore ai 12 mesi (che è diverso dall’ipotesi della proroga: infatti il rinnovo prevede una cessazione del rapporto con successiva instaurazione di un nuovo rapporto, mentre la proroga prevede una continuità del rapporto) la norma prevede la necessità di indicare della causali, che, come abbiamo avuto modo di scrivere nei precedenti approfondimenti pubblicati sul nostro sito, sono le seguenti: I) esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività; II) esigenze di sostituzione di altri lavoratori; III) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.


In assenza delle succitate causali il rapporto viene considerato a tempo indeterminato dalla data di superamento del termine di 12 mesi (articolo 19, comma 1-bis, D.Lgs. n.81/2015, introdotto dalla legge n. 96/2018).


Come già evidenziato, stante il fine posto alla base del provvedimento che cerca di ridurre la percentuale di contratti non stabili, si tratta di casistiche molto complesse da individuare per i datori di lavoro in quanto non facilmente rilevabili e attuabili nell’esplicazione pratica, se non con un rischio di contestazioni e potenziali controversie.

 

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