Il trasferimento del lavoratore
Il trasferimento consiste nella variazione definitiva del luogo presso il quale il lavoratore è chiamato a svolgere le proprie prestazioni. Il datore di lavoro ha diritto di modificare la sede di lavoro del prestatore in forza del potere direttivo e gerarchico riconosciuto dal codice civile. Tuttavia lo stesso codice civile pone dei limiti al potere di trasferire un dipendente. Nello specifico l’art. 2103 c.c. stabilisce che il lavoratore non può essere trasferito presso un’altra sede produttiva se non in presenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative o produttive. L’assenza di queste ultime rende il trasferimento nullo (Cass. 28.9.2006, n. 21037). Chiaramente se a fare richiesta di trasferimento è il lavoratore stesso, le ragioni suesposte non hanno validità (Cassazione 8.8.2011 n. 17095).
In base alla più recente giurisprudenza, la sopravvenuta inidoneità del lavoratore a svolgere le proprie mansioni, unita all'impossibilità del datore di occuparlo in altre e alla mancanza di un obbligo di crearne appositamente di compatibili, costituisce una valida ragione per il suo trasferimento presso una diversa sede di lavoro ove siano disponibili mansioni coerenti con il suo inquadramento (Trib. Trieste 4.6.2010).
È valido il principio della giurisprudenza di legittimità che afferma l’assenza di un obbligo del datore di lavoro di comunicare al dipendente trasferito le ragioni che giustificano il trasferimento stesso. L’obbligo sorge, tuttavia, se a richiederle è il lavoratore (Cass. 28.10.2013, n. 24260).
Va osservato che il trasferimento del lavoratore presso altra sede per esigenze organizzative può consentire al medesimo di richiederne giudizialmente l'accertamento della legittimità, ma non lo autorizza a rifiutarsi in via preventiva e senza un eventuale avallo giudiziario che, peraltro, può essergli urgentemente accordato in via cautelare, di eseguire la prestazione richiestagli, in quanto egli è tenuto ad osservare le disposizioni per l'esecuzione del lavoro impartito dall'imprenditore, e può legittimamente invocare l'art. 1460 c.c. (si tratta dell’eccezione di inadempimento, per cui in un contratto a prestazioni corrispettive una parte può rifiutarsi di adempiere la propria obbligazione se l'altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, sempreché il rifiuto della parte non sia contrario al rispetto del principio di buona fede), rendendosi inadempiente, solo in caso di totale inadempimento dell'altra parte: salvo che ricorra tale ultima ipotesi, il licenziamento è legittimo (Cass. 26.9.2016, n. 18866). Le dimissioni per giusta causa rassegnate in relazione al trasferimento non sorretto dalle comprovate ragioni richieste dalla norma, dà diritto alla NASpI (Inps, msg. 26.1.2018, n. 369).
Per ciò che concerne la forma, non vi è alcun obbligo di forma scritta, a condizione che non venga stabilito dal contratto collettivo o individuale. Risulta evidente che è raccomandabile la forma scritta ai fini della prova (c.d. ad probationem). Stesso principio deve essere applicato nella comunicazione dei motivi che sottendono al trasferimento. Tuttavia, parte della giurisprudenza ritiene che le motivazioni debbano essere indicate obbligatoriamente per iscritto, applicando in via analogica la normativa in tema di comunicazione di licenziamento (art. 2, comma 2, legge n.604/1966 come modificato dalla legge n.92/2012) la quale prevede l’obbligo di specificare i motivi che rendono necessario il licenziamento.
Molti CCNL prevedono un obbligo di preavviso al dipendente prima di rendere effettivo il trasferimento; se il datore di lavoro non rispetta la disciplina collettiva il trasferimento rimane inefficace per un periodo pari al periodo di preavviso stabilito. A titolo esemplificativo si riportano le previsioni di alcuni contratti collettivi:
Industria metalmeccanica: 20 giorni;
Terziario: 45 giorni, se il lavoratore ha familiari a carico il periodo arriva a 70 giorni;
Studi professionali: 15 giorni.
In tema di retribuzione, il trasferimento non può aprioristicamente incidere sulle mansioni e sul livello retributivo. Infatti il trasferimento non può produrre una regressione nelle mansioni del lavoratore e dunque del livello retributivo. È altresì vero che la prima parte dell’articolo 2103 c.c., dopo la modifica introdotta dal Jobs Act, consente di adibire il lavoratore a mansioni inferiori, che comunque devono rientrare all’interno della categoria legale di inquadramento iniziale senza incidere sulla retribuzione, ma con la possibilità di eliminare alcune indennità legate alle mansioni precedentemente svolte (ad esempio un lavoratore svolgente funzioni di cassa, nell’ipotesi in cui venisse spostato ad altra mansione, non gli verrà più erogata la c.d. indennità di maneggio denaro, o indennità di cassa).
Al lavoratore è riconosciuto il diritto di impugnare il trasferimento a pena di decadenza entro 60 giorni dalla data di ricezione della comunicazione di trasferimento in forma scritta (e non dalla data della comunicazione dei motivi), con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore. L’impugnazione risulta inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di 270 giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato. Qualora la conciliazione o l’arbitrato non vadano a buon fine il ricorso in cancelleria deve essere depositato a pena di decadenza entro 60 giorni dal rifiuto o mancato accordo (art. 6, co. 1, 2 e 3, L. 15.7.1966, n. 604; art. 32, co. 3, lett. c), L. 4.11.2010, n. 183).